L’orizzonte filosofico di Erminio Troilo. Idealismo e Positivismo nella prima metà del XX secolo

ISSN  2281-6569
SFI, Sezione di Sulmona Giuseppe Capograssi
[online]

(autore: Silvio Cappelli,

testo letto in occasione del

convegno di Perano 26 maggio 2012)

– Introduzione

In un piccolo saggio scritto in onore di Mario Dal Pra, che di Erminio Troilo fu discepolo tra i più geniali, il grande storico della filosofia, Eugenio Garin, definisce il filosofo peranese “un inquieto scolaro di Ardigò”1. In questa definizione credo che sia contenuto non solo il senso dell’itinerario filosofico di Troilo, ma anche dello stesso orizzonte pensante all’interno del quale è venuta delineandosi la sua posizione. Parlare infatti della filosofia di Erminio Troilo, tentare soltanto di tracciare un ritratto esauriente è in questa sede impresa disperata. Ciò dipende dal fatto che non solo Troilo fu protagonista di primo piano del dibattito filosofico italiano, ma soprattutto, data la sua lunga carriera universitaria2, significa parlare delle vicende della filosofia italiana della prima metà del XX secolo. Significa cioè abbracciare non solo un lungo periodo di riflessione, ma anche e soprattutto confrontarsi con una generazione di pensatori tra le più felici della storia italiana, a cui peraltro va ad aggiungersi l’aspetto decisivo delle innumerevoli vicissitudini politiche attraversate dal nostro paese3. L’«inquietudine» di cui parla Garin in riferimento a Troilo diventa pertanto l’espressione più appropriata per indicare l’intreccio tra filosofia e politica, tra università e società civile spesso causa di rotture personali tra filosofi – è il caso di Gentile e Croce –, oppure di tragici eventi, come la morte di Antonio Gramsci nel 1937 dopo lunghi anni di carcere o l’uccisione dello stesso Gentile nell’aprile del 1944. Per descrivere l’orizzonte filosofico di Troilo è perciò necessario tener presente l’alfa e l’omega di questa prima metà del secolo. Da un lato l’ottimismo del liberalismo trionfante, spalleggiato dall’affermazione sempre più netta del positivismo; dall’altro lato il pessimismo esistenzialistico di fronte alla distruzione e alle violenza delle dittature e del secondo conflitto mondiale. Tra questi due poli resta sospeso il filo della storia; un filo anzi rotto, spezzato dall’evento decisivo della Grande Guerra del 1915.4. Guerra che sconvolge tutte quelle certezze politico-culturali che fino ad allora avevano sorretto la struttura dell’occidente facendo crollare un mondo che forse era già in crisi prima della guerra stessa. L’idea del “tramonto dell’occidente”, per utilizzare il titolo della celebre opera di Oswald Spengler, sarà il tema caratteristico di quegli anni5. Un problema dunque di filosofia della storia, di pensiero “della” storia che già in quanto tale spazza via tutte le riflessioni accademiche che fino a quel momento dominavano la filosofia. Alle indagini cioè sulle forme e le modalità della conoscenza scientifico-filosofica subentrano quelle riguardanti l’uomo e la sua storia, il destino e il futuro dell’occidente6. In altri termini l’indagine filosofica si fa adesso più concreta, più “reale”, mentre la riflessione precedente appare ormai come una vuota ed astratta esercitazione dialettica.

– Il positivismo di Roberto Ardigò

In effetti questi due momenti che abbiamo indicato e che ruotano intorno alla guerra mondiale come punto di svolta decisivo hanno trovato una corrispondenza ben precisa e puntuale anche nella riflessione di Erminio Troilo. Come scriverà nella sua autobiografia, La mia prospettiva filosofica (1950), è intorno al 1920, l’anno del passaggio dall’università di Palermo a quella di Padova, che avviene la svolta intellettuale dal positivismo a quello che lui chiamerà “realismo assoluto”. Scrive infatti Troilo: «[…] m’è difficile restringere in breve esposizione la filosofia che sono venuto elaborando durante la maggior parte della mia vita; dal tempo in cui – sulla fine del secolo XIX – la mia posizione filosofica era quella del positivismo, fino a quando, intorno al 1920, per la revisione critica che io feci del positivismo stesso, venni a questa veduta che dico di realismo assoluto: al quale, completo nei suoi lineamenti e parti fondamentali, lavoro ancora»7. Una svolta che in realtà non segna una rottura con il suo precedente orientamento filosofico, quanto piuttosto un’integrazione, direi quasi un approfondimento di quanto era già contenuto nella riflessione precedente. Da questo punto di vista è sufficiente ricordare la particolare relazione che Troilo ha avuto con il suo maestro Roberto Ardigò, il massimo rappresentante e fondatore del positivismo italiano della fine dell’8008. È da qui che occorre partire per comprendere appieno il senso della filosofia italiana di quegli anni, il senso cioè delle sue articolazioni interne, della sua costante e continua ricerca e messa in discussione di quei presupposti che daranno vita ad un dibattito ricchissimo e la cui eco continuerà per gran parte del ‘900. Abbiamo già messo in evidenza l’intreccio tra filosofia e politica come base per comprendere le vicende di quegli anni. Ebbene questo intreccio è tanto più chiaro e lampante proprio nei decenni in cui il positivismo fu protagonista assoluto della vita filosofico-culturale italiana. Siamo infatti nell’epoca immediatamente successiva all’unità d’Italia, la spinta anti-clericale e del liberalismo, così come il programma di rinnovamento culturale e di costruzione materiale di un paese diviso per 1500 anni – basti pensare solo alla grande diffusione della rete ferroviaria che va a coincidere con un programma scolastico teso a combattere l’analfabetismo di gran parte delle masse popolari –, costituiscono il terreno più favorevole all’affermazione del positivismo e di quella cultura che, in altri termini, faceva della scienza e del progresso scientifico il suo nuovo credo9. Questa stagione filosofica è particolarmente importante perché, forse per la prima volta dopo la grande stagione del Rinascimento, l’Italia riesce finalmente ad agganciarsi al grande dibattito europeo, ovunque dominato dal grande tema del rapporto tra filosofia e scienza, dal problema epistemologico di definizione della “verità”, fino alle questioni dell’evoluzionismo sociale, all’interno del quale anche il materialismo e lo stesso marxismo veniva (indebitamente) collocato. La necessità di una filosofia “positiva” corrispondeva a quella “filosofia dell’avvenire” che già Feuerbach e dopo di lui Marx avevano preannunciato. E se questo è il solco all’interno del quale si muove la riflessione di un Antonio Labriola e in cui si inserisce l’origine stessa della filosofia del Croce e del Gentile (basti ricordare la tesi di quest’ultimo sul materialismo di Marx), l’altra grande corrente predominante è rappresentata dalla sociologia di August Comte e di Herbert Spencer. In questa sede mi preme soprattutto mettere in evidenza il tratto tipico di questa filiazione della filosofia italiana dal positivismo europeo. L’opera di Roberto Ardigò, che – come noto – era un canonico e che fu un uomo del Risorgimento militante, contiene infatti tutti quegli elementi che costituiranno le basi della riflessione successiva10. Tre mi sembrano gli aspetti più salienti della speculazione di Ardigò. In primo luogo l’appello all’esperienza concreta11, poi l’elaborazione di un sistema in cui natura e storia fossero intimamente e “razionalmente” connesse12; infine il centro di tale sistema: il problema della morale che Ardigò consegnò al suo libro più importante La morale dei positivisti, ma in cui però emerge l’intima contraddizione che avvolge la riflessione di tutto il positivismo italiano. Infatti, sebbene la morale venga presentata da Ardigò come «il corollario più diretto, e più sincero, e più schietto del Vangelo»13, è tuttavia innegabile che l’insegnamento cristiano risulta di fatto ingessata nelle forme di un determinismo naturalistico di chiara derivazione spenceriana, annullando l’idea stessa di libertà, la quale forse ha avuto nel cristianesimo la sua più alta configurazione. In altri termini, il monismo della speculazione di Ardigò, cioè l’identità tra natura e storia, annulla la drammaticità che sta alla base dell’esistenza umana, spogliando l’uomo dell’intima precarietà del suo essere a tutto vantaggio di un ottimismo che presto i suoi allievi guarderanno con sospetto.

– Troilo: il positivismo e il problema della metafisica

Giuseppe Tarozzi14, Giovan Battista Marchesini15, e infine il nostro Troilo furono coloro che ereditarono e che si mossero nel solco tracciato dall’Ardigò. Ma tutti se ne distaccarono, assumendo un atteggiamento critico verso il positivismo e il suo maestro, tanto che Garin nelle sue Cronache, può dire di Ardigò che «si spense nel 1920; [ma] era, spiritualmente, un sopravvissuto da più di vent’anni»16. Ed in effetti anche Troilo aveva intrapreso negli anni precedentiun ripensamento generale di questo indirizzo filosofico, per esempio nello scritto del 1909, Idee e ideali del positivismo, dove già è precisa la direzione in cui egli intende continuare e ripensare l’opera del maestro, e cioè il problema morale, il problema dell’uomo e non più quella della “natura”.

Né antropocentrismo, né libero arbitrio, – scrive Troilo – sotto alcuna forma, ammette il positivismo; ma colloca l’uomo nella catena degli uomini e delle cose, e non lo fa eccezione […]. Pure, se l’uomo non ha una posizione propria privilegiata, contraddittoria, assurda ontologicamente, è tale tuttavia che, dal suo posto nell’universo, può ricostruire e ricostruisce un antropomorfismo soggettivo, morale, ideale17.

In questo passaggio possiamo già cogliere la critica e il superamento del positivismo di Ardigò. Critica nell’essere in effetti il positivismo di Ardigò una negazione della libertà umana, cioè del libero arbitrio, proprio nell’inserimento dell’uomo all’interno della catena dell’essere dominata dal rapporto di causa ed effetto, e superamento dello stesso perché da questa posizione è tuttavia possibile costruire un “antropomorfismo soggettivo”. Il quale antropomorfismo soggettivo, secondo Troilo, «è dovuto non già a qualche cosa che turba l’armonia e la legge universale; bensì a proprietà ed a funzioni, che – esistenti in germe e in potenza anche negli altri esseri – lentamente si vengono svolgendo ed affermando fino ad erompere magnificamente, nella più alta forma umana»18. Dunque da un lato la necessità di appropriarsi dell’eredità di Ardigò nella sua ultima ed alta questione, quella della morale, dall’altro però un distacco sempre più netto e ricco di conseguenze là dove invece Troilo sposta l’attenzione dall’armonia e dalle leggi universali alle funzioni proprie dell’uomo.

Cosa si cela dietro questo slittamento? Cosa rappresenta questo porre in risalto le “funzioni dello spirito” di contro alla stabilità del tutto? Giungiamo qui alla questione radicale che sottende a tutta la speculazione di Troilo. Dietro il rapporto tra l’antropomorfismo e la legge universale, dietro il rapporto tra l’uomo e l’armonia, si cela il problema – a nostro avviso – che successivamente ricomparirà al centro dell’elaborazione del realismo assoluto, vale a dire il rapporto tra pensiero (uomo) e essere (natura-legge universale). Abbiamo letto il passo autobiografico in cui Troilo racconta che i germi del suo realismo assoluto sono già insiti nella fase positivistica. In effetti basta accennare solo ad alcuni titoli tra i più significativi di Troilo nei primi anni del ‘900 per vedere come ciò fosse vero. Indubbiamente, accanto allo scritto più importante sul positivismo, vale a direIl positivismo e i diritti dello spirito (1912), in cui Troilo mostra come in realtà il “vero” positivismo fosse garanzia degli ideali spirituali, al contrario invece di quanto un cattivo positivismo alimentato e raffigurato paradossalmente dai suoi stessi critici, primi fra tutti Croce e Gentile, andava riproponendo, compaiono i volumi dedicati a La filosofia di Giordano Bruno (2 voll., 1907-13). Sarebbe impresa ardua valutare nella sua complessità e compattezza l’incidenza della filosofia bruniana sulla riflessione di Troilo, tuttavia è importante sottolineare nell’economia del nostro intervento come la presenza di Bruno sia decisiva in questa parte della sua vita intellettuale. Bruno infatti è colui a cui Troilo guarderà per ricercare quell’impostazione in grado di superare le astrattezze della metafisica. Il positivismo di Troilo, in altri termini, non si limita all’esaltazione ingenua della scienza e dell’empiria, ma si approfondisce in un naturalismo che non sacrifica “i diritti dello spirito”, come scrive nel 1912. Lotta quindi alla metafisica, è questo il programma tracciato da Troilo nelle pagine del Bruno, da cui citiamo il seguente passaggio su cosa egli intenda per “metafisica”.

La metafisica nel comune senso filosofico e come caratterizzante una certa forma di filosofia, si profila allorché un dualismo si presenti (…); allorché si pongono, in generale o in particolare, doppie facce di enigmi, doppi ordini di problemi, doppi principi, doppie forme e doppie leggi, dell’essere naturale e soprannaturale, contingente e trascendente, umano e divino, e via di seguito – dualismo esplicito o implicito, voluto o inavvertito, posto o dedotto con rigore logico, o risultante fra le spire sottili delle inconseguenza e delle contraddizioni; dualismo di trascendenza o di immanenza; prevalentemente sostanziale o prevalentemente dialettico; sia quello platonico o quello aristotelico, o quello che si annida nella fallace compagine della pretesa filosofia dell’unità e identità, la quale succede al pensiero kantiano, da Fichte ad Hegel19.

Dunque metafisica è in primo luogo dualismo ed in questo senso la filosofia bruniana con la sua formula principale per cui Dio è “Mens super omnia” e al tempo stesso “Mens insita omnibus” di fatto, secondo Troilo, «rompe sostanzialmente con la metafisica».

– Il rapporto col neo-idealismo

È dunque una forma di immanentismo che ci viene prospettato? No, giacché se così fosse allora la posizione di Troilo sarebbe simile a quella dell’attualismo di Gentile, il quale nelle pagine de La Critica, il giornale fondato nel 1903 da Benedetto Croce, recensisce duramente l’opera20. Qui apriamo un altro importante capitolo nella nostra ricostruzione dell’orizzonte filosofico di Troilo, vale a dire il rapporto con la corrente del neo-idealismo. La parte conclusiva del passo appena citato rimanda alla filosofia tedesca. Troilo contrappone Kant alla filosofia dell’identità o dell’immanenza di Hegel. Basterebbe soltanto questo riferimento per far emergere la diversa sensibilità verso il problema della metafisica. In effetti anche il neo-idealismo combatteva, al pari del positivismo, le scorribande del dommatismo metafisico in nome di un farsi concreto, per così dire, della filosofia. E sebbene tra Croce e Gentile fossero sempre più marcate le differenze in merito21, in entrambi i pensatori la posizione di Hegel era di egemonia sia nella cultura tedesca che in generale in quella dell’occidente. Hegel contra Kant, questo è un altro tema radicale di quegli anni soprattutto se si considera che Kant nella sua sensibilità verso la scienza e la fisica era guardato con una certa simpatia proprio dalle correnti filosofiche che, come il positivismo appunto, non disprezzavano i risultati clamorosi in questo ambito22. In La dottrina della conoscenza nei moderni precursori di Kant, opera scritta nel 1904 e recensita duramente sempre dallo stesso Gentile ne La Critica23, emerge chiaramente la differenza d’approccio al problema del kantismo e alla sua relazione con l’idealismo da parte di Troilo. In questo testo, che occupa un posto di rilievo nella storiografia cosiddetta neokantiana di moda soprattutto in Germania, Troilo mostra come gli elementi tipici del criticismo fossero già presenti nelle filosofie anteriori a Kant, in Bacone, Galilei, Descartes, Leibniz, Berkeley, Locke e infine Hume. Come nota lo stesso Gentile, al centro della sua ricostruzione è il tema dell’apriori. Concetto di primaria importanza nella storia della filosofia moderna, e che Troilo liquida senza mezzi termini come un retaggio metafisico presente in Kant. Anzi, secondo Troilo, Kant in questo particolare concetto dimostra di trovarsi indietro alla posizione di Hume. Scrive infatti il filosofo peranese: «L’apriori non è ammissibile nella conoscenza, nel senso metafisico ed assoluto accettato da Kant. E la scienza moderna, che anche qui ha il diritto di intervenire, dà ragione alla analisi critica di Hume, avendo risoluto l’apriori kantiano in una illusione di ottica psicologica e filosofica»24. Quindi una condanna senza appello per l’apriori kantiano, laddove invece per Gentile l’apriori indica il massimo coronamento della filosofia occidentale, essendo l’elaborazione più forte dell’attivismo del pensiero che fonda la realtà e che quindi è alla base dell’essere. Anzi per Gentile il limite di Kant non l’apriori, ma la “cosa in sé”, cioè quella «x» che secondo Kant resta inafferrabile e inaccessibile alle categorie del pensiero. Per Gentile invece il pensiero inteso come “atto puro” è tale da superare anche questo vincolo, permettendo perciò l’integrale fondazione dell’essere da parte delle categorie pensanti. È questa la lezione che Gentile riprende dal suo maestro, Bertrando Spaventa25, nativo di Bomba e massimo filosofo italiano dell’800 nonché diffusore della filosofia di Hegel in Italia, al pari del suo maestro, Ottavio Colecchi26, anche lui abruzzese, essendo nato a Pescocostanzo, e primo grande divulgatore della filosofia kantiana in Italia. Quindi c’è una linea ben precisa, direi quasi abruzzese, che costituisce l’ossatura del neo-idealismo italiano.

– Il “realismo assoluto”

La polemica di Troilo nei confronti dell’idealismo continua anche dopo la guerra mondiale e la morte di Ardigò, nel periodo in cui assistiamo all’elaborazione del realismo assoluto. Ma cosa intende Troilo per “realismo assoluto”? Sembra quasi un paradosso, ma ciò che si critica con la nozione di “realismo assoluto” è proprio il tentativo da parte dell’idealismo di ridurre tutto all’immanenza, di schiacciare cioè l’orizzonte dello spirito all’unica dimensione umana, cancellando perciò tutto il mondo extraumano dei valori e degli ideali. Scrive a tal proposito Troilo in Figure e studi di storia della filosofia: «L’extraumano non è un’invenzione e un sogno: bensì una realtà; la realtà da cui il soggetto istorico non può prescindere in alcun modo. Né materialmente, giacché essa per lo meno, ne costituisce il campo d’azione; e neppure logicamente, poiché essa non può non condizionare il pensiero medesimo, sia con elementi impliciti di categoricità, che l’infiltrano, non importa se con impurità, in tutte le tavole di categorie, sia riducendosi essa stessa a categoria suprema, come nella profonda visione rosminiana»27. Ma così non sembra riproporsi il dualismo da sempre combattuto da Troilo? No, giacché anche in questo caso non assistiamo al riproporsi di un puro ed ingenuo dualismo, quanto piuttosto alla continua polemica contro l’idealismo, soprattutto se si tiene ben presente che anche i termini in gioco sono gli stessi. In fondo si tratta d’affrontare il problema originario della filosofia occidentale, il problema parmenideo dell’Essere e il rapporto col Pensiero. Abbiamo già visto nelle sue grandi linee la posizione di Gentile a tal proposito. Per lui il pensiero fonda l’essere nell’atto stesso in cui pensa. Senza il pensiero non si dà l’essere. Questa posizione non era altro che la prosecuzione di una linea di pensiero che vedeva insieme Kant e Hegel, e nel caso di Gentile soprattutto il Kant della Critica del Giudizio. Per Troilo, che esporrà i frutti della sua riflessione ne Le ragioni della trascendenza o del realismo assoluto (1936), questa era una posizione insostenibile in quanto così si faceva dell’uomo un dio. Qui emerge nella riflessione del filosofo peranese il problema della differenza tra Essere e Pensiero tale da implicare il riconoscimento di uno sfondo primario ed originario, per così dire, rispetto all’attività del pensiero, anzi il pensiero stesso non è che una determinazione di questo Essere, al di fuori del quale non pensabile alcunché. Troilo ha sempre definito il “realismo assoluto” una “confessione”, che in quanto tale riconosce alla filosofia il suo essere «non soltanto una costruzione logica pensata, ma sopratutto vissuta, e sovente patita»28. Vediamo allora come la componente religiosa e quella filosofica tendano a coincidere nell’ultima fase dell’elaborazione pensante di Troilo. Mario Dal Pra, che si laureò con lui a Padova con la tesi dal titolo già di per sé significativo Il realismo e il trascendente, dopo aver ricordato come questo realismo fosse particolarmente gradito dai giovani studenti, indica l’essenza del pensiero di Troilo ne «il problema di superare criticamente lo stesso idealismo conservando un significato al problema di Dio»29. L’Essere di Troilo, dirà opportunamente Dal Pra, è «“cominciamento assoluto” dal quale tutto sgorga e nel quale tutto ricade: oltre questo essere non esisterebbe alcun essere poiché tutto è – in modo assoluto (metafisicamente assoluto) – in esso, come finito e come infinito, come atto o come potenza, come assoluto o come particolare»30. L’Essere dunque di Troilo è assolutamente reale, è la realtà “in sé e per sé”, espressione questa che ci rimanda all’altro grande pensatore che sta alla base del suo pensiero, Baruch Spinoza. Come già accaduto per Bruno, non si può affrontare in questa sede l’incidenza complessiva della filosofia spinoziana su Troilo. Tuttavia è bene ricordare che il rapporto con Spinoza è stato costante lungo tutto l’arco della sua vita. Basti ricordare la traduzione italiana de l’Ethica di Spinoza nel 1917 (ancora una volta recensita duramente ne La Critica dal Gentile31), ma soprattutto gli Studi su Benedetto Spinoza, pubblicati tra il 1927 e il 1932, quindi nel bel mezzo dell’elaborazione del “realismo assoluto”. Da Spinoza Troilo riprende l’idea dell’Essere come “causa sui”, come causa immanente di tutti gli enti che è anche e al tempo stesso il fondamento più reale di ogni ente. Secondo Troilo, infine, l’Essere ha un’estensione maggiore del Pensiero.

Conclusione

Siamo dunque all’elaborazione finale del pensiero di Troilo. Di fronte a noi abbiamo il tentativo grandioso, direi, di conciliare Bruno e Spinoza, recuperando quei temi decisivi che stanno all’origine della riflessione filosofica. In fondo altri pensatori hanno tentato un analogo cammino. Penso solo a Giuseppe Capograssi il quale, seppur muovendo da altra prospettiva, ha tentato di mettere insieme l’eredità di Vico con quella di Pascal. Ed ancora una volta ciò che era in gioco era da un lato la lotta comune all’idealismo, dall’altro l’uomo. Certo partire da Pascal è cosa diversa che partire da Spinoza, da Vico piuttosto che da Bruno. In un caso infatti si mette in risalto sempre e comunque la differenza assordante dell’uomo da Dio, anzi la sua solitudine, la sua tragedia per così dire, la sua disperazione; dall’altro caso invece ci muoviamo all’interno di un quadro ben definito che in quanto tale garantisce l’uomo proprio da questa sua disperazione intima. Il realismo assoluto di Troilo si presenta infatti come monistico e in quanto tale non fa altro che ripresentare tutti i problemi che già in Spinoza erano stati affrontati. Sarà la speculazione successiva, proprio grazie a Dal Pra, ad operare in questa direzione, portando una differenza anche nell’Essere, e aprendo così il dibattito filosofico del secondo dopoguerra a nuove sfide oltre che a fondare una vera e propria scuola, quella di Milano, di cui Troilo può dirsi il padre spirituale.

Note al testo

1 Il “ricordo” di Garin è consultabile adesso nell’archivio on line della rivista Informazione Filosofica all’indirizzo: http://www.studifilosofici.it/pdf/6.pdf.

2 La carriera universitaria di Erminio Troilo iniziò, come noto, a Roma con la libera docenza agli inizi del ‘900 e proseguì con la cattedra di filosofia teoretica all’università di Palermo nel 1915 fino al trasferimento definitivo a Padova nel 1920, dove resterà ininterrottamente fino al 1948.

3 Per un primo riferimento bibliografico sulle vicende della filosofia italiana della prima metà del XX secolo, si rimanda al classico lavoro di Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana 1900-1960, Laterza, Roma-Bari 19661, 1997. Inoltre è da tener presente il terzo volume della Storia della filosofia, Le Monnier, Firenze 1971, di E. Paolo Lamanna e Vittorio Matthieu, dedicato a La filosofia del novecento. La filosofia italiana: idealismo, anti-idealismo, spiritualismo. Per gli anni del ventennio fascista preziosa resta la ricostruzione di Franco Restaino nel saggio La filosofia italiana dal 1925 al 1943: confronti e scontri, in La figura e le opere di Dino Terra nel panorama letterario ed artistico del ‘900, Marsilio, Venezia 2009, a cura di Daniela Marcheschi, pp. 141-160. Dello stesso Restaino cfr. il suo contributo in la Storia della filosofia di Nicola Abbagnano, UTET, Torino 1993, volume 9, Il dibattito contemporaneo: il dibattito attuale, ora in Gruppo Editoriale L’Espresso, 2006, pp. 273-458.

4 Dirà il Troilo a tal proposito in La filosofia e la guerra in un tono tipico di molti intellettuali durante quel triste periodo: “Essa [la guerra] non si vince solo nei campi di battaglia; anzi non sarà realmente vinta, se non pure nello spirito. Anche noi, dunque, siamo i combattenti”, in La filosofia e la guerra, Milano 1916, pag. 179.

5 O. Spengler, Il tramonto dell’occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, 1917-1922, trad. it. di Julius Evola, Longanesi, Milano 2008. Su tutta la discussione intorno a “Il tramonto” cfr. il testo collettaneo Oswald Spengler. Tramonto e metamorfosi dell’occidente, Mimesis, Milano 2004.

6 A tal proposito si rimanda al volume Prospettive di filosofia della storia, a cura di R. Mordacci, Bruno Mondadori, Milano 2009.

7 E. Troilo, La mia prospettiva filosofica, Padova 1950, pp. 227 e sgg.

8 Troilo dedicherà una monografia al suo maestro dal titolo Roberto Ardigò, Athena, Milano 1926.

9 Diversi tuttavia sono i giudizi intorno agli ultimi decenni dell’800. Da un lato abbiamo quelli negativi del Croce e del Gentile; l’uno ne la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 parla di «una decadenza rispetto all’età precedente», l’altro invece ne Le origini della filosofia contemporanea in Italia parla di «un disseccamento della nostra vena speculativa» e conclude aggiungendo: «vennero le critiche, i commenti, le storie: ma la vita della filosofia disparve». Profondamente diverso sembra il giudizio di un altro grande protagonista della filosofia italiana, spesso non pienamente riconosciuto, Antonio Banfi, il quale invece in Verità e umanità nella filosofia contemporanea sottolinea come alle «costruzioni composite ed arcaiche, grevi di dogmatismo metafisico», tipiche della filosofia di un Rosmini o di un Gioberti, seguisse l’attenta riflessione di una filosofia orientata verso «i problemi concreti che offriva la nuova vita etica». Ma per quanto contrastanti, questi giudizi coincidono in realtà sull’apporto decisivo del positivismo. A tal proposito vedasi il giudizio di M. F. Sciacca, Il secolo XX, vol. I, Milano 1947: «il positivismo italiano non solo modifica la concezione tradizionale del realismo, ma prepara la via allo stesso idealismo. Visti fuori dal reciproco atteggiamento polemico, positivismo ed idealismo appaiono sì avversari, ma avversari che combattono su un terreno comune: l’oggetto come “il fatto stesso dell’esperienza” anche se differiscono sul modo di intendere l’“esperienza”, per cui queste considerazioni rendono manifesto quanto esagerata, o almeno inesatta, sia l’ affermazione divenuta ormai un luogo comune, che l’ idealismo neohegeliano abbia, quasi per un improvviso miracolo, rinnovato la filosofia italiana dalle fondamenta e demolito ed annientato il positivismo», ivi, pp. 72-74.

10 Cfr. A. Bausola, Sul significato storico di Roberto Ardigò, in “Rivista di filosofia neo-scolastica”, Fasc. 6, 1960.

11 Scrive infatti l’Ardigò: «la scienza non si fa colle volate inutili del metafisico, ma colla minuta, paziente, non frettolosa, incessante ricerca sperimentale…», cit. in E. Garin, Cronache, cit., pag. 6.

12 «Un ordine inappuntabile, – scrive l’Ardigò – una razionalità dell’insieme sapientissima [che] riesca ad esserci sempre, anche quando si direbbe che c’è disordine nelle parti, e che queste mancano al loro scopo», in La formazione naturale nel fatto del sistema solare, in Opere, II, Padova 1889, pp. 258 e sgg.

13 R. Ardigò, La morale dei positivisti, in Opere, III, Padova 1908, pag. 144.

14 Di Giuseppe Tarozzi (1866-1958), che fu collega a Padova del Troilo, si ricordano le seguenti opere L’esistenza e l’anima (1930); La libertà umana e la critica del determinismo (1936, raccolta dei suoi più importanti saggi teorici) e L’infinito e il divino (1951).

15 Quanto a Giovan Battista Marchesini (1868-1931), altro collega a Padova, è bene ricordare la direzione della Rivista di filosofia, pedagogia e scienze affini (1899-1908) e del Dizionario delle scienze pedagogiche (1929). Tra i suoi scritti più importanti Le finzioni dell’anima (1905).

16 E. Garin, Cronache, cit., pag. 13.

17 E. Troilo, Idee e ideali del positivismo, Roma 1909, pp. 266-267.

18 Ibidem.

19 E. Troilo, La filosofia di Giordano Bruno, Bocca, Torino 1907, pp. 21-22.

20 La Critica, 6, 1908, pp.134 e sgg.

21 Croce infatti elaborerà l’identità di storia e spirito, giungendo ad uno storicismo assoluto ruotante intorno all’idea di libertà; Gentile invece porrà l’identità tra spirito e pensiero, per cui il suo attualismo riassorbiva ogni alterità, ogni ente nell’azione, nell’atto del pensiero stesso, per cui per esempio non esiste storia se non nell’atto stesso del pensiero. Di Benedetto Croce è necessario almeno ricordare Teoria e storia della storiografia, Laterza, Bari 1916 e La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1938. Mentre di Giovanni Gentile si veda almeno Teoria generale dello spirito come atto puro, 1918. Per un inquadramento esauriente di tutta la vicenda del neo-idealismo si rimanda a Nicola Badaloni Labriola, Croce, Gentile, Laterza, Roma-Bari 1978.

22 Cfr. per esempio il III e il IV volume della Storia della filosofia moderna , Einaudi, Torino 1955, di Ernst Cassirer dedicato alla ricostruzione delle vicende storiografiche relative alla filosofia del diciannovesimo secolo.

23 La Critica, 3, 1905, pp. 409 e sgg.

24 E. Troilo, La dottrina della conoscenza nei moderni precursori di Kant, Bocca, Torino 1904, pag. 293.

25 Di Bertando Spaventa (1817-1883) vanno ricordati almeno le seguenti opere: Le prime categorie della logica di Hegel (1863); Principî di filosofia (1867, ripubblicati completi da Gentile nel 1911 col titolo Logica e metafisica); Studi sull’etica di Hegel (1869, ristampato nel 1904 col titolo Principii di etica); Frammento inedito (pubblicato con questo titolo da Gentile nella Riforma della dialettica hegeliana, 1913).

26 Su Ottavio Colecchi (1770-1847) e la sua incidenza sulla formazione della filosofia napoletana si rimanda ai lavori di G. Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, II, Milano 1930, pp. 138-249 (con Scritti inediti: Psicologia, Logica applicata, Ideologia, Frammento apologetico). Cfr. inoltre A. Cristallini, Ottavio Colecchi, un filosofo da riscoprire, Padova 1968 e G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell’Ottocento, Bari 1973, pp. 158-163.

27 E. Troilo, Figure e studii di storia della filosofia, L’Universelle, Roma 1918, pp. 199-200.

28 E. Troilo, La mia prospettiva filosofica, cit., pag. 251.

29 M. Dal Pra – F. Minazzi, Ragione e storia. Mezzo secolo di filosofia italiana, Rusconi, Milano 1992, pag. 29. Sempre in quel dialogo con Minazzi, Dal Pra afferma: «Era proprio il nucleo di anti-idealismo – la vera nota distintiva di Troilo di quegli anni – ad esercitare una notevole e primaria attrazione su tutti noi studenti».

30 Ivi, pag. 30.

31 La Critica, 15, 1917, pp. 43-52.

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